sexta-feira, 30 de setembro de 2011

Cardeal Malcom Ranjith : L’Eucaristia è “un affacciarsi del Cielo sulla terra”


L’Eucaristia è “un affacciarsi del Cielo sulla terra”
(Sacramentum Caritatis, 35)
Introduzione
Il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen Gentium, nomina l’Eucaristia come “fonte e apice di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium, 11). Inoltre il Decreto sul ministero e la vita dei Presbiteri Presbyterorum Ordinis, dice così: “Infatti, nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini” (Presbyterorum Ordinis, 5). Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce l’Eucaristia “il compendio e la somma della nostra fede” (CCC 1327).
Il ruolo determinante che l’Eucaristia svolge nella vita spirituale della Chiesa è stato riconosciuto sin dai primi momenti della sua esistenza. Proprio il brano scritturistico proposto come base di riflessione oggi, cioè Atti 2, 42-46, indica come la prima comunità dei chiamati celebrava l’Eucaristia: si usa l’espressione “klasei tou artou” – “spezzare il pane” (versetto 42-46) per definire la celebrazione eucaristica.
Ora non è mio compito introdurvi nella storia della teologia eucaristica. Sentirete su questo argomento anche il Prof. Padre Mathias Augè, CMF. Comunque è interessante ascoltare ciò che San Giustino martire scrive sui momenti più significativi della celebrazione eucaristica già al suo tempo. Egli scrive: “Nel giorno chiamato ‘del sole’ ci si raduna tutti insieme, abitanti della città o delle campagne. Si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo lo consente. Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere sia per noi stessi .. sia per tutti gli altri, dovunque si trovino, affinché appresa la verità, meritiamo di essere nei fatti buoni cittadini e fedeli custodi dei precetti e di conseguire la salvezza eterna. Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio. Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d’acqua e di vino temperato. Egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell’universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie (in greco “eucharistein”) per essere stati fatti degni da Lui di questi doni. Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: ‘Amen’. Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l’acqua « eucaristizzati » e ne portano agli assenti” (Apologia 1, 65).
Come a quel tempo, così l’Eucaristia ha continuato ad essere al centro della vita dei discepoli ed ha continuato ad animare la vita ecclesiale lungo tutti i secoli. La Chiesa ha sempre vissuto dell’Eucaristia e per l’Eucaristia crescendo sempre di più nella sua fede e nella comprensione di questo mistero anche, come spiegava il Beato Giovanni Paolo II, attraverso le scelte “dei Concili e dei Sommi Pontefici” (Ecclesia de Eucharistia, 9). Basta pensare alle mirabili pagine dottrinali del Concilio di Trento (Denzinger 877, 883, 884), delle Encicliche Mirae Caritatis di Leone XIII (1902), Mediator Dei di Pio XII (1947) e Mysterium Fidei di Paolo VI (1965).
Questo processo esplicativo della dottrina eucaristica ha continuato il suo cammino fino ad oggi, acquistando una profondità di grande rilievo soprattutto negli insegnamenti del Concilio Vaticano II, specialmente nella sua costituzione dogmatica Lumen Gentium ed il decreto Presbyterorum Ordinis. Papa Giovanni Paolo II attraverso la lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia ha dato una singolare spinta alla dottrina eucaristica ed ora il Papa Benedetto XVI nei suoi numerosi scritti, omelie e soprattutto nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis ha stimolato nuovi impulsi di approfondimento. Credo che nel pensiero dell’attuale Papa troviamo un senso profondamente mistico dell’Eucaristia ed una visione della stessa Chiesa in chiave veramente eucaristica. I suoi scritti dimostrano ampiamente come egli sia un Papa profondamente eucaristico. Forse, il fatto di essere stato eletto alla Sede di Pietro proprio nell’anno eucaristico 2005 – 2006 ha stimolato questo suo orientamento.


Actio Dei – Actio Christi
Parlando dell’Eucaristia affermiamo prima di tutto che essa è, come la Chiesa ha sempre insistito, Actio Dei – Actio Christi. Difatti il “mistero” della liturgia cristiana, come tale, non prende tanto le sue mosse dalla terra, ossia dalla carne e dal sangue, nel tentativo titanico o disperato degli uomini di raggiungere il Cielo con le proprie forze, imitando la religione dei costruttori della torre di Babele, quanto da Dio stesso che, nei santi misteri celebrati dalla Chiesa, compie il suo piano di salvezza: svela a noi la sua grandezza e ci invita a diventare partecipi delle realtà eterne. Perciò la liturgia è soprattutto opera divina in favore dell’uomo, attuazione qui e ora, attraverso i riti e le preghiere, del disegno di comunione tra Dio e l’uomo realizzato in Cristo Gesù a beneficio di tutte le generazioni umane. I misteri storici di Cristo rivivono nella liturgia, il cui centro è rappresentato dall’Eucaristia, attirandoci a Dio e al prossimo nella realtà dell’amore divino.
In questa luce prende tutto il suo spessore l’esordio della Lettera Apostolica del Papa Benedetto XVI: “Sacramento della Carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo … Gesù nel Sacramento Eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo Corpo e del suo Sangue. Quale stupore deve aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena! Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero eucaristico” (Sacramentum  Caritatis, 1).
L’azione Eucaristica dunque non è tanto ciò che facciamo noi, quanto ciò che il Signore realizza in noi: “Cristo ci attira a sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola in Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli e la comunione con il Signore è sempre anche comunione con le sorelle e con i fratelli” (Benedetto XVI, Omelia pronunciata a Bari il 29 Maggio 2005 per la conclusione del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale).
In altre parole, ciò che fonda, motiva e sostiene la celebrazione Eucaristica è la volontà divina di donarsi: “Nel Sacramento dell’altare, il Signore viene incontro all’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen. 1, 27) facendosi suo compagno di viaggio. In questo Sacramento infatti il Signore si fa cibo per l’uomo affamato di verità e di libertà” (Sacramentum Caritatis, 2). Questo è proprio il movimento inverso alla religione dei costruttori della torre di Babele, i quali rappresentano, per così dire, i tentativi dell’uomo di farsi Dio, senza lo spirito di umiltà ed apertura capace di accogliere la discesa di Dio incontro all’uomo, in quella mistica d’amore che lo libera. L’Eucaristia è dunque l’espressione più tangibile di quel movimento discendente di Dio che va incontro all’uomo per stringerlo a sé in comunione mirabile – quel movimento che attraversa l’intera storia della salvezza centrata in Cristo, si prolunga e si perpetua nella celebrazione Eucaristica.
Che cos’è la liturgia della Parola, se non l’azione di Dio che rivela se stesso, la sua identità e la nostra identità in rapporto a Lui? E che cosa è la Liturgia Eucaristica se non l’incessante offerta senza misura del Dono di Cristo, nel sacramento del suo Corpo e Sangue, per attirarci sempre più e meglio nella logica e nella realtà dell’amore che redime dal male e riscatta dalla morte? Non è questo il fascino dell’al di là, della chiamata a cercare le cose di lassù (cf. Col. 3, 1)? Di vedere tutta la nostra vita, le nostre scelte, come parte integrante di quell’abbraccio dell’eterno amore che siamo chiamati a realizzare tramite la celebrazione dell’Eucaristia? La nostra partecipazione a questa Actio Christi è proprio come la partecipazione di Maria nel mistero dell’Incarnazione. Non è stata Lei l’attrice principale di ciò che è avvenuto, ma il Signore stesso. Eppure, senza la sua partecipazione tale processo non avrebbe potuto realizzarsi. La prima iniziativa comunque è sempre di Dio e ciò che spetta a noi è semplicemente di adeguarci a Lui. Anche la stessa ars celebrandi deve riflettere questo senso dell’al di là (cf. Sacramentum Caritatis, 40).
Quale mistico dono di Dio alla Chiesa, l’Eucaristia deve essere sempre accolta e non stravolta, deve essere servita, custodita e fedelmente trasmessa. Lo ricorda il n. 37 dell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis: “poiché la liturgia Eucaristica è essenzialmente actio Dei che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito, il suo fondamento non è a disposizione del nostro arbitrio e non può subire il ricatto delle mode del momento …. La celebrazione dell’Eucaristia implica, infatti, la Tradizione viva. La Chiesa celebra il sacrificio eucaristico in obbedienza al comando di Cristo, a partire dall’esperienza del Risorto e dall’effusione dello Spirito Santo”.


Dimensione dell’aldilà
L’Eucaristia è il radunarsi escatologico del popolo di Dio. Il Banchetto eucaristico è per noi reale anticipazione del banchetto finale, preannunziato dai profeti (cf. Is. 25, 6-9) e descritto nel Nuovo Testamento come « le nozze dell’Agnello » (Ap. 19, 7-9) da celebrarsi nella gloria della comunione dei Santi” (Sacramentum Caritatis,  31).
La celebrazione Eucaristica non è perciò limitata a chi vi partecipa fisicamente ma si svolge, oltre al piano terrestre della nostra partecipazione, sul piano escatologico e riflette la celebrazione nuziale ed il Banchetto dell’Agnello immolato nella Gerusalemme celeste. Per questo, già ogni celebrazione Eucaristica è fortemente apocalittica ed escatologica, come anche profondamente ecclesiale, cioè coinvolge sia la Chiesa vittoriosa del cielo, che quella sofferente nel Purgatorio come anche la Chiesa militante qui sulla terra. Proprio per questa ragione l’Eucaristia non è sotto il nostro arbitrio. È proprio questa dimensione, soprannaturale e celeste, che rende l’Eucaristia un’esperienza profondamente al di là delle nostre concezioni e del nostro controllo. Non siamo noi i protagonisti principali di ciò che accade.


Sacrificio del Calvario
D’altra parte, ciò che accade nella celebrazione Eucaristica è ciò che Cristo continua a realizzare attraverso noi sui nostri altari: il suo grande atto immolativo e salvifico della croce. Dice Papa Giovanni Paolo II “La Messa rende presente il sacrificio della Croce, non vi si aggiunge e non lo moltiplica” (Ecclesia de Eucharistia, 12), ma ogni Santa Messa è “l’unico e definitivo sacrificio redentore di Cristo che si rende sempre attuale nel tempo”  (ibid.). Difatti dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: “il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio” (CCC, 1367).
Diceva San Giovanni Crisostomo: “noi offriamo sempre il medesimo Agnello, e non oggi uno e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per questa ragione il Sacrificio è sempre uno solo” (Omelie sulla Lettera agli Ebrei, 17, 3; PG 63, 131). L’Eucaristia dunque è il sacrificio del Calvario che si compie ogni volta sui nostri altari e chi lo adempie è Cristo stesso nella persona del sacerdote celebrante. Anzi il sacerdote celebrante viene assunto da Cristo e trasformato in un “alter Christus”.
Per questo il Santo Padre nell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis dice: “è necessario, pertanto, che i sacerdoti abbiano coscienza che tutto il loro ministero non deve mai mettere in primo piano loro stessi o le loro opinioni, ma Gesù Cristo. Contraddice l’identità sacerdotale ogni tentativo di porre se stessi come protagonisti dell’azione liturgica. Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a Lui” (n. 23).
Tutta la vita liturgica ecclesiale è solamente un’associazione a quel continuo cantico di lode che si rende al Padre per Cristo, Agnello immolato, nello Spirito Santo nella Gerusalemme celeste; non siamo noi i protagonisti principali di tale azione. D’altronde l’Eucaristia è quell’espressione privilegiata, quel sacrificio d’espiazione che piacque a Dio, che Gesù rinnova in noi per la salvezza del mondo. Per questa ragione la vita liturgica è un dono fatto a noi, è data per noi. Non siamo noi i suoi inventori. Allo stesso modo, l’Eucaristia è un dono di Cristo fatto a noi. Per tale motivo ciò che noi realizziamo sull’altare, come si esprime la Mediator Dei, non appartiene tanto a noi, quanto a Cristo perché è “il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra” (Mediator Dei, 20).


La tentazione del protagonismo
Il problema è che noi Vescovi e sacerdoti, in quanto essere umani, siamo tentati dal protagonismo:  metterci al centro ci dà soddisfazione – ciò che chiamo ‘coccolare l’ego. Con la Messa celebrata versus populum tale tentazione è molto più forte. Con la nostra faccia verso il popolo aumenta la tentazione di essere uno ‘showman’.
In un bell’articolo scritto da un autore tedesco si trova il seguente commento interessante in materia: “Mentre nel passato il sacerdote funzionava come l’anonimo intermediario, primo tra i fedeli, rivolto verso Dio e non il popolo, rappresentante di tutti e con loro offrendo il sacrificio … oggi lui è una persona speciale, con caratteristiche personali, il suo stile personale, la sua faccia rivolta verso il popolo. Per molti sacerdoti questo cambiamento è una tentazione che non riescono a superare … per loro, il livello del loro successo nel protagonismo diventa una misura del loro potere personale e così l’indicatore di un feeling della loro sicurezza e disinvoltura personale” (K. G. Rey, Pubertaetserscheinungen in der Katholíschen Kirche, – Segni della Pubertà nella Chiesa Cattolica – Kritische Texte, Benzinger, vol. 4, p. 25).
Oggi si nota sempre di più una forte mancanza di consapevolezza di ciò che accade durante la celebrazione Eucaristica. Con questo tipo di protagonismo del quale Rey parla, il sacerdote diventa l’attore principale che esegue un’opera teatrale con altri attori su di un palco, e più creativo e attivo egli diventa, più  pensa di essere riuscito ad impressionare gli spettatori e così  trova una soddisfazione personale. Ma dove è Cristo in tutto questo? Lui sembra essere il grande dimenticato!


Ars celebrandi
E’ proprio per questo che il santo Padre parla – nella Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis, dell’ars celebrandi, da intendersi non come un’altra arte per rendere più impressionante le celebrazioni liturgiche, nel senso descritto dall’autore Rey, ma come un modo effettivo di adeguarsi al vero senso della liturgia, adeguarsi al suo senso più profondo e mistico.
Dice il Papa: “l’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche  nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto Popolo di Dio, sacerdozio regale e nazione santa (cf. 1Pt 2, 4-5, 9)” (Sacramentum Caritatis, 38). Inoltre afferma il Papa: “l’ars celebrandi deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come ad esempio l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredo e del luogo sacro” (ibid. 40). L’ars celebrandi perciò connota fedeltà a Cristo, alla prassi della Chiesa, al senso mistico e sacro che sfugge ai nostri sensi, e fedeltà alle norme liturgiche come ai libri liturgici.
Che le norme liturgiche non vanno manipolate, toccate o ignorate è stato chiaramente indicato nella Costituzione Liturgica del Concilio – la Sacrosanctum Concilium. Essa diceva: “Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo … di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (SC 22). L’allora Cardinale Ratzinger nel suo libro Introduzione allo Spirito della Liturgia, spiega che le grandi forme rituali “sono sottratte all’intervento del singolo, della singola comunità, o anche di una Chiesa particolare. La non arbitrarietà è un elemento costitutivo della loro stessa natura. Essi [i riti] sono espressione del fatto che nella liturgia mi viene incontro qualcosa che non sono io a farmi da me stesso, che io entro in qualcosa di più grande che, ultimamente, proviene dalla Rivelazione. Per questo la liturgia è chiamata in oriente « divina liturgia », un’espressione che ne sottolinea la non disponibilità da parte degli uomini” (Introduzione allo Spirito della Liturgia, San Paolo, Milano 2001, p. 161).


Eucaristia e Adorazione
L’Eucaristia è la visibile presenza di Cristo tra noi. Difatti, come definiva il Concilio di Trento: “per consecrationem panis et vini conversionem fieri totius substantiae panis in substantiam Corporis Christi Domini Nostri, et totius substantiae vini in substantiam Sanguinis eius. Quae conversio convenienter et proprie a Sancta Cattolica Ecclesia transubstantiatio est appellata” (Denzinger, 877), e: “in almo Sanctae Eucharistiae Sacramento post panis et vini consecrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter sub specie illarum rerum sensibilem contineri” (Denzinger, 874).
Tali constatazioni ci vengono proposte sulla base delle stesse parole di Gesù che in quell’ultima Cena con gli apostoli, la sera prima della sua morte, prendendo il pane nelle sue mani sante pronunciò quelle parole – “questo è il mio Corpo, dato per voi” (Lc. 22, 19), e, con il vino “questo calice è il nuovo patto nel mio sangue sparso per voi” (Lc. 22, 20) e poi ordinò loro: “fate questo in memoria di me” (Lc. 22, 19). Così è nata la celebrazione liturgica dell’Eucaristia.
Il sacerdote agisce in persona Christi e ripetendo le stesse parole di Gesù effettua la totale trasformazione del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo. La transustanziazione delle specie del pane e del vino avviene in questo modo tramite la strumentalità del sacerdote.  Dice San Giovanni Crisostomo: “non è l’uomo che fa diventare le cose offerte, Corpo e Sangue di Cristo, ma è Cristo stesso, che è stato crocifisso per noi. Il sacerdote figura di Cristo, pronunzia quelle parole, ma la loro virtù e la grazia sono di Dio. Questo è il mio Corpo, dice. Questa parola trasforma le cose offerte” (De proditione Judae, 1, 6; PG 49, 380 c).
Per questa ragione le specie eucaristiche diventano non solo il ricordo vivo del sacrificio salvifico di Cristo sul Golgota, ma anche l’espressione reale, viva e tangibile della sua presenza tra noi. La Chiesa ha sempre difeso e salvaguardato questo grande dono di Cristo e la fede eucaristica. Inoltre, col passare dei secoli, altre espressioni di questa fede venivano scoprendosi gradualmente diventando un grande patrimonio di pratiche liturgiche e paraliturgiche come anche delle devozioni nuove al Signore presente nelle specie eucaristiche: adorazione eucaristica fuori dalla Santa Messa, processioni eucaristiche, visite al Santissimo Sacramento, preghiere giaculatorie, celebrazione della festa del Corpus Domini, Ora santa, Quarantore, benedizione del Santissimo Sacramento, confraternite di adoratori e congressi eucaristici. Tali pratiche hanno subito un continuo processo di sviluppo e arricchimento.
La costatazione importante qui è che siccome Cristo è presente nelle specie eucaristiche non solo durante la celebrazione della Santa Messa (quella è la concezione protestante) ma anche dopo, Gesù eucaristico deve essere adorato e glorificato sempre. Le specie eucaristiche una volta consacrate rimangono divine e così adorabili – la visibile presenza di Cristo tra noi. “E’ Lui!” Esclamava spesso San Giovanni Maria Vianney, il santo Curato D’Ars.
Ci sono purtroppo delle persone che la pensano diversamente e dicono che il Concilio Vaticano II non avrebbe dato grande importanza all’Adorazione Eucaristica. Tale constatazione non è senza una base poiché, di fatto, la costituzione liturgica del Concilio non menziona l’Adorazione Eucaristica. Il testo infatti include una sezione sulle devozioni popolari (n. 13) ma non menziona devozioni eucaristiche. È quanto mai sorprendente come dopo numerosi pronunciamenti in materia, sia nel decreto sull’Eucaristia del Concilio di Trento che nei successivi scritti Pontifici e poi nella Lettera Encliclica Mediator Dei (n.129 – 137) del Papa Pio XII, pubblicata appena qualche anno prima, nessun accenno al tema si trova nella costituzione liturgica del Concilio Vaticano II Sacrosantum Concilium. Forse è per questo silenzio che in certi ambienti era nata una presa di posizione sfavorevole all’Adorazione Eucaristica nell’epoca della riforma postconciliare. Infatti il Papa, parlando di ciò, dice: “mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra la Santa Messa e l’Adorazione del Santissimo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto ad esempio dal rilievo secondo cui il Pane Eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato ma per essere mangiato” (Sacramentum Caritatis, 66).
Tale posizione va collocata anche nell’insieme di alcune confusioni teologiche verificatesi durante e dopo il Concilio e contro le quali Papa Paolo VI già prima della fine del Concilio volle porre fine con la sua grande Enciclica sull’Eucarestia, la Mysterium Fidei. Infatti diceva Papa Paolo VI: “Tuttavia, Fratelli Venerabili, non mancano, proprio nella materia che ora trattiamo, motivi di grave sollecitudine pastorale e di ansietà, dei quali la coscienza del Nostro dovere apostolico non ci permette di tacere. Ben sappiamo infatti che tra quelli che parlano e scrivono di questo Sacrosanto Mistero ci sono alcuni che circa le Messe private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano certe opinioni che turbano l’animo dei fedeli ingerendovi non poca confusione intorno alle verità di fede, come se a chiunque fosse lecito porre in oblio la dottrina già definita dalla Chiesa, oppure interpretarla in maniera che il genuino significato delle parole o la riconosciuta forza dei concetti ne restino snervati. Non è infatti lecito, tanto per portare un esempio, esaltare la Messa così detta « comunitaria » in modo da togliere importanza alla Messa privata; né insistere sulla ragione di segno sacramentale come se il simbolismo, che tutti certamente ammettono nella Santissima Eucaristia, esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo in questo Sacramento; o anche discutere del mistero della transustanziazione senza far cenno della mirabile conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo e di tutta la sostanza del vino nel Sangue di Cristo, conversione di cui parla il Concilio di Trento, in modo che essi si limitino soltanto alla « transignificazione » e « transfinalizzazione » come dicono; o finalmente proporre e mettere in uso l’opinione secondo la quale nelle Ostie consacrate e rimaste dopo la celebrazione del sacrificio della Messa Nostro Signore Gesù Cristo non sarebbe più presente” “(Mysterium Fidei,  9-11). Il Papa spiega quale sia l’intento dell’Enciclica: “Affinché dunque la speranza, suscitata dal Concilio, di una nuova luce di pietà eucaristica, che investe tutta la Chiesa, non sia frustrata e inaridita dai semi già sparsi di false opinioni, abbiamo deciso di parlare di questo grave argomento a voi, Venerabili Fratelli, comunicandovi sopra di esso il Nostro pensiero con apostolica autorità” (ibid. 13).
Questa lunga citazione dell’Enciclica uscita il 3 settembre 1965, già prima della fine del Concilio, dimostra quanto il Papa fosse turbato per ciò che stava accadendo. D’altronde il Papa si impegnava con una certa celerità a regolare un’altra prassi che nasceva nella chiesa, specialmente nel nord Europa, sulla ricezione della Santa Comunione. Con l’Istruzione Memoriale Domini, della Congregazione per il Culto Divino del 28 maggio 1969, Papa Paolo VI voleva regolare questa prassi, cioè la comunione sulla mano abusivamente introdotta in questi ambienti. Il documento spiega che il modo di ricevere la Santa Comunione sulla lingua doveva essere conservato, non solo perché fa parte di una lunga tradizione, ma per la ragione di conservare il senso di riverenza per il Signore Eucaristico  presso i fedeli (cf. n. 8). Pur accettando la possibilità di ricevere la Santa Comunione sulla mano, l’Istruzione voleva assicurare che tutto si facesse in modo ordinato. È interessante notare come, in un sondaggio fatto presso i Padri Conciliari, la stragrande maggioranza avesse votato “non placet” a tre domande favorevoli a questa prassi (cf. n. 13). Tutte queste scelte di Papa Paolo VI dimostrano un senso di grave preoccupazione che sentiva in verso certe posizioni teologiche – dottrinali erronee, o riduttive, del Santissimo Sacramento, presso alcune scuole teologiche e liturgiche.
Anche il Papa Benedetto XVI, come abbiamo visto sopra nella Sacramentum Caritatis al n. 66, raccomanda ai fedeli di salvaguardare un grande senso di riverenza verso l’Eucaristia e non lasciarsi confondere da certe posizioni erronee. Tali posizioni effettivamente riducevano il senso divino dell’Eucaristia ad un livello puramente materialista ed umano. Il Papa osserva che già Agostino aveva detto: « nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo » (Sacr. Carit. 66).
Per il Papa senza adorazione non c’è un vero ricevimento del Signore: “ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso colui che riceviamo … soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e vera” (Sacramentum Caritatis, 66). Per celebrare con intenso coinvolgimento il mistero della salvezza realizzata sull’altare ci vuole un profondo atteggiamento di silenzio, contemplazione e intensa comunione con Gesù Eucaristico. Dovremmo infatti vivere tale atteggiamento di riverenza e adorazione durante tutta la giornata, per esprimere la nostra disponibilità ad essere in piena comunione con Cristo. Più adoratori diveniamo sull’altare, più saremo toccati dalla comunione trinitaria in Cristo e capaci perciò di rispondere meglio alla nostra chiamata cristiana.
Senza un atteggiamento di adorazione, perciò, non può essere completata una vera celebrazione del Sacrificio Eucaristico. Come spiega Papa Benedetto XVI, ‘adorazione’ nella lingua greca è ‘proskynesis’, parola che significa un gesto di sottomissione: “il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire” (Omelia a Marienfeld, Colonia, 21 agosto 2005). La parola latina ‘adoratio’, come spiega il Papa, significa “contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi, in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è amore” (ibid.). Adorazione perciò è l’atteggiamento di lasciarsi coinvolgere nell’immenso atto d’amore e auto-donazione di Cristo sulla croce. L’Eucaristia, ripresentando questa auto-donazione sulla croce ci avvolge e ci inserisce intimamente nella sua Pasqua – il passaggio dalla morte alla vita nel quale l’egoismo, il peccato e la morte umana vengono superati definitivamente.
Non è dunque strano che i primi adoratori ai piedi della Croce, che vengono travolti dall’amore di Dio, siano stati Maria, la Madre di Dio, Giovanni e il centurione romano il quale grida la prima confessione di fede, parola di adorazione profonda: “veramente quest’uomo era il Figlio di Dio” (Mc 15, 39).
Siamo noi veramente consci della grandezza di ciò che, in un certo modo, sta accadendo sui nostri altari? Le nostre espressioni di fede come “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo” oppure “in questo sacrificio o Padre, noi tuoi ministri e tutto il tuo popolo santo, celebriamo il memoriale della beata passione, della risurrezione dai morti” oppure “O Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato”: sono veramente ciò che sentiamo nell’intimo del nostro cuore? Oppure sono solo suoni senza contenuto?
Il Papa chiede che ogni volta che si celebra la Santa Messa ci siano non solo il senso di raccoglimento e di sobrietà, ma anche momenti di silenzio e di contemplazione. Parlando anzi dell’actuosa participatio dice – “con tale parola non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna durante la celebrazione. In realtà, l’attuale partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini più sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero che viene celebrato” (Sacramentum Caritatis, 52). Il Papa rigetta quell’atteggiamento di alcuni di noi che per “l’incapacità di distinguere, nella comunione ecclesiale, i diversi compiti spettanti a ciascuno”, causano la confusione dei ruoli di chi deve occupare il presbiterio e chi la navata. In particolare, è necessario “che vi sia chiarezza riguardo ai compiti specifici del sacerdote” (ibid. 53).
L’atteggiamento di venerazione verso ciò che accade esige anche, come dice il Papa, uno spirito “di costante conversione che deve caratterizzare la vita di tutti i fedeli”. E aggiunge: “non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla liturgia eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita” (ibid. 55). Inoltre Egli parla del raccoglimento del silenzio, del digiuno e, quando necessario, della confessione sacramentale (cf. Sacramentum Caritatis, 55).
L’Eucaristia – come si vede – è quel trasporsi dalla nostra quotidianità ai piedi della croce dove Cristo, assieme a Maria, Giovanni ed il centurione è l’Agnello immolato che rinnova il suo sacrificio d’amore donandosi per la nostra salvezza eterna.


La lingua sacra
Una delle banalizzazioni ed interpretazioni molto riduttive dell’Eucaristia è stata il quasi totale abbandono dell’uso della lingua latina nella liturgia. Bisogna comunque affermare che non c’è niente di negativo se noi celebriamo la liturgia nella lingua vernacolare. Anzi, la scelta del Concilio di introdurre più uso delle lingue vernacolari nella liturgia era il punto d’arrivo, dopo decenni di tentativi, soprattutto nelle Chiese d’oltralpe, affinché i fedeli partecipassero con maggior intensità alla preghiera della Chiesa, soprattutto nella sua espressione eucaristica. In un tempo nel quale la conoscenza e l’apprezzamento delle lingue classiche perdeva terreno, la Chiesa non aveva altra scelta.
Ma ciò che avrebbe dovuto accadere era un graduale ed illuminato uso delle lingue vernacolari e non l’abbandono totale di una lingua comune liturgica universalmente usata. Tale abbandono ha portato non solo a una riduzione in generale del senso del sacro, particolarmente nella liturgia, ma anche ad una sorta di convenzionalismo nei confronti della Chiesa. Noi per esempio abbiamo nello Sri Lanka, nel contesto del dopoguerra, contrasti a livello liturgico fra i due gruppi etnici e linguistici dei cingalesi e tamil, di pregare insieme in una lingua. La liturgia non ci unisce più, ma ci divide; questa è la nostra esperienza odierna.
Il Concilio non aveva auspicato un abbandono totale della lingua comune liturgica della Chiesa, la lingua latina. Di fatto, esso aveva così auspicato: “l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium,  36). Anche nell’apertura verso le lingue vernacolari a scopi di utilità per il popolo, il Concilio aveva affermato: “si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi”. Non era previsto né era raccomandato dai Padri conciliari il totale abbandono della lingua latina,  come la mens del documento Sacrosanctum Concilium chiaramente indica.
L’uso di una lingua antica nel culto religioso, una lingua non usata nel contesto odierno, è comune per molte altre religioni. Per esempio, la lingua liturgica dell’Induismo è il sanscrito, del Buddismo è il pali, e nell’Islam l’arabo coranico. Nessuna di queste lingue è parlata oggi. Ognuna di queste lingue è rispettata e riservata per esprimere qualcosa che oltrepassa il livello dei suoni e delle lettere. Nel Giudaismo, per esempio, si scrive con il tetragramma il non pronunciabile nome di Dio. Di per sé le quattro lettere di questa parola non hanno un significato linguistico particolare, ma rappresentano il sacrosanto nome di Dio nella tradizione scritta della Masora. La parola stessa non è traducibile ed è stata lasciata intoccabile sia dai rabbini, che da esperti del Giudaismo. Di fatto, in alcune culture le lingue sono nate da una combinazione di suoni e concetti liturgici. La parola “Om” nell’Induismo, o la parola “Nirvana” del Buddismo, sono parole che esprimono molto più di ciò che il suono originale rappresenta, e cercare di spiegare con altre parole tali concetti comporta un impoverimento.
La fede cattolica è spesso identificata con alcuni concetti teologici di base che non sono di per sé traducibili e che sono intimamente legati al patrimonio linguistico greco e latino nel quale tali concetti sono nati. Abbandonando questo patrimonio nella nostra liturgia si corre il pericolo di impoverimento e di gravi errori quanto al contenuto della nostra stessa fede. Per questo il Concilio era cauto su tale scelta; ed infatti incoraggiava i fedeli a “recitare e cantare insieme anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della Messa che spettano ad essi” (Sacrosanctum Concilium, 54) e i chierici a recitare l’Ufficio divino in lingua latina (cf. 101, 1). Credo che l’insistenza con la quale Papa Benedetto parli dell’uso della lingua latina e del canto gregoriano nella liturgia (cf. Sacamentum Caritatis, 62), vada nella giusta direzione, quella auspicata dal Concilio Vaticano II.


Conclusione
Nelle mie riflessioni non ho cercato di presentare una totale ed esauriente presentazione sull’Eucaristia o sulla liturgia ma, anche per la limitatezza del tempo, solo alcuni punti che a me sembrano importanti. L’Eucaristia, come dice la dottrina della Chiesa, è un mistero; mistero anche perché è il Signore. Nessuno lo ha mai capito o compreso. Le stesse sacre pagine attestano che nessun uomo capirà mai le vie del Signore: “Chi ha diretto lo spirito del Signore e come suo consigliere gli ha dato suggerimenti? A chi ha chiesto consiglio, perché lo istruisse e gli insegnasse il sentiero della giustizia?” (Is. 40, 13-14).
La Chiesa nella sua lunga tradizione ha celebrato Cristo nella sua auto-donazione sul Calvario. Ciò che spetta a noi è solo di adeguarci a ciò che Egli, misticamente, realizza sui nostri altari, diventando noi stessi l’alter Christus, la vittima e sacerdote che, con grande devozione e fede, aderisce a lui e gli permette di abbracciarci nel suo atto d’amore: “quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo, amore, questo, nella sua forma più radicale” (Deus Caritas Est, 12).
Vorrei terminare questa riflessione con alcune parole del Santo curato d’Ars, bellissime per la profondità, non solo teologica, ma anche per la sua tenera affettuosità verso il Signore: “Tutte le buone opere non sono uguali nel valore quando si considera il sacrificio della Messa, perché quelle sono opere degli uomini, ma la Santa Messa è l’opera di Dio. Il martirio non è niente paragonato ad essa; esso è il sacrificio che l’uomo fa della sua vita a Dio. Ma la Messa è il sacrificio che Dio fa all’uomo del suo Corpo e del suo Sangue. Quanto grande è un sacerdote! Se capisce questo, morrà … Dio gli obbedisce; lui pronuncia due parole e il Signore scende dal cielo e si chiude dentro una piccola ostia. Quale dono!” (Piccolo Catechismo).


Intervento tenuto all’Assemblea Ecclesiale della Diocesi di Porto – Santa Rufina
Roma - La Storta, 23 settembre 2011.
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